Le assaggiatrici è un film uscito a marzo 2025, per la regia di Silvio Soldini. E’ tratto dall’omonimo romanzo di Rosella Pastorino, ispirato alla storia vera di Margot Wölk, che alla fine della sua vita confessò di essere stata da giovane un’assaggiatrice di Hitler .
Il romanzo è stato adattato per lo schermo da Cristina Comencini, Giulia Calenda e Ilaria Macchia. La sceneggiatura è del regista, Doriana Leondeff e Lucio Ricca, la fotografia è di Renato Berta.
Gli attori, bravissimi, sono tedeschi e recitano nella loro lingua, la stessa dei personaggi del film, delle vittime e dei loro aguzzini.
Protagonista del film è la giovane Rosa che, nell’autunno del 1943, lascia Berlino,
colpita dai bombardamenti, per raggiunge un piccolo paese isolato, vicino al confine orientale, dove vivono i suoceri e dove il marito, impegnato al fronte in Russia, le ha scritto di rifugiarsi in attesa del suo ritorno. Il villaggio confina con la foresta in cui Hitler ha il suo quartier generale, la Tana del Lupo.
Una mattina all’alba, le SS prelevano Rosa da casa e la portano nella caserma di Krausendorf, dove la costringono a lavorare come assaggiatrice dei pasti del Fuhrer, assieme ad altre sei giovani donne del villaggio. Tra queste, nella narrazione filmica, si distinguono in particolare: la ragazza sempliciotta, ingenua e romantica, la ragazza ostile che in realtà è un’ebrea sotto falso nome, la madre di famiglia.
Il fatto che siano tutte “giovani e sane donne tedesche”, “ariane”, non le protegge. Così, improvvisamente, la loro vita non ha più valore, non sono più persone, ma strumenti al servizio del potere. E’ quanto può succedere in una dittatura! Si ritrovano a perdere la libertà, ad essere maltrattate, minacciate, sequestrate, in sostanza trasformate in cavie per salvaguardare la vita del dittatore. Ovviamente dall’assaggiatrice sostenitrice del partito, totalmente asservita al regime, una tale degradazione viene intesa come un privilegio, un onore.
E’ scontato il richiamo a Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), in cui Freud vede l’uomo come un animale che vive in un orda guidata da un capo supremo. La massa infatti non è altro che la reviviscenza dell’orda primordiale. In essa il singolo rinuncia al proprio Ideale dell’Io e lo sostituisce con l’ideale collettivo, incarnato nel capo. Se gli individui della massa hanno bisogno dell’illusione di essere amati in eguale misura dal capo, il capo non ha bisogno di amare nessuno, può essere assolutamente narcisistico (magari di un narcisismo maligno alla Rosenfeld), al di sopra di tutti. Ne consegue che il singolo non ha alcun valore.
L’atmosfera del film è cupa e pesante. La pulsione di morte è onnipresente: le ragazze rischiano di morire tutti i giorni, nella foresta c’è il Lupo nella sua Tana, i russi avanzano, si intuisce, si teme e si spera la sconfitta della Wehrmacht e la fine del nazismo.
Nelle prime fasi le assaggiatrici locali riconoscono una leader nella vedova di guerra, indurita dalla vita, e fanno gruppo escludendo la protagonista, la “berlinese” Rosa, che arriva dall’esterno. La fame, lo stravolgimento delle normali esistenze, la condizione di precarietà, i lutti, determinano il disinvestimento oggettuale e il ripiegamento narcisistico delle persone, guidate dalla pulsione di sopravvivenza, con una situazione tipo “mors tua vita mea”. Poi, nella convivenza forzata, le asperità iniziali si ammorbidiscono e, nonostante le differenze di carattere e di convinzioni politiche, le assaggiatrici stringono tra loro alleanze, amicizie e patti segreti. Si ritrovano tutte bloccate in una realtà parallela, tetra e angosciante, in cui giorno dopo giorno testano i pasti di Hitler ad una tavola sempre uguale, in una sala grigio-azzurra, che richiama il colore delle divise naziste e dei mezzi militari. In questo stato di segregazione si verificano appunto legamenti e slegamenti tra libido oggettuale e libido narcisistica, che possono infatti sostenersi a vicenda.
Intanto all’esterno il tempo passa, la guerra continua, la Germania va verso la sconfitta.
Il film esprime molto bene la condizione di spaesamento e impotenza delle protagoniste. Lo spettatore avverte una sensazione di sospensione straniante e soffocante, mentre si ripete la routine di pranzi e cene, pause in cortile con possibilità di vicinanza e confidenze tra le donne, che, grazie a un’incredibile capacità di adattamento, riescono anche a rimuovere la paura di morire in quella surreale roulette russa. Poi però la disperazione ritorna. In una scena molto forte, due del gruppo stanno male improvvisamente per una tossinfezione, che sembra un avvelenamento; le altre cinque si spaventano, ma ovviamente il pensiero che possiamo immaginare è “ E’ capitato a loro, non a me!”, un pensiero orribile, ma comprensibile e inevitabile.
La storia mostra molto bene come le pulsioni di vita (di sopravvivenza e sessuale) si oppongono al dilagare della pulsione di morte. Una delle ragazze, madre di famiglia col marito in guerra, rimane incinta del garzone del suo negozio, poco più che ragazzino. “Mi sentivo così sola” confida alla protagonista…
Lo stesso movimento si verifica nella protagonista: dopo aver ricevuto la comunicazione della morte del marito, Rosa cade in uno stato di prostrazione e rifiuto della vita, da cui si risolleva per via di una passione fuori controllo per l’ufficiale delle SS al comando della struttura.
La pulsione sessuale interviene quindi nel riportare alla vita le due donne, nonostante tutto, nonostante la disperazione.
Mi torna in mente il bel romanzo di Heinrich Boll, Foto di gruppo con signora, in cui la protagonista, la tedesca Leni, sotto i bombardamenti, concepisce un figlio con un prigioniero sovietico.
Eros e Thanatos…
Il film presenta una costruzione più solida e precisa di quanto potrebbe sembrare superficialmente e, nonostante una conclusione non immune da retorica, è coinvolgente e lascia il segno.