Familia è un film drammatico che si avvicina al genere del thriller psicologico, affrontando su più direttive tematiche sociali e psicologiche.
Luigi Celeste, che nell’adattamento cinematografico diventa il personaggio principale del film, interpretato da Francesco Gheghi, chiamato con il suo proprio nome in omaggio all’aspetto documentario, scrive la propria storia durante la detenzione nel carcere di Bollate, Milano, condannato per aver ucciso il padre, abusante e violento nei confronti della moglie e di conseguenza dei sui stessi figli, Luigi e Alessandro nel film. Luigi Celeste è arrivato al Lido da Strasburgo, dove vive e lavora, per presenziare e sostenere la presentazione del film.
Nel film la problematica della violenza familiare si intreccia con i vuoti istituzionali e con quella più intima dello sviluppo della personalità del bambino e dell’adolescente attraverso la possibilità di identificazione con i rappresentanti parentali e di introiettare una funzione normativa, punitiva, ma anche protettiva. Uno sguardo all’intrapsichico e all’interpersonale.
La scelta del titolo in latino, spiega Costabile non è casuale: “Noi le famiglie ce le portiamo addosso e dovrebbero essere il luogo dell’amore, della crescita, ma purtroppo non è sempre così. Il termine latino, familia, implica il contratto di schiavitù che il padre di famiglia instaura con i propri servi, compresa la moglie. In questa parola c’è tutto il marcio che si nasconde dietro quest’istituzione in qualunque tipo di ambiente, ormai lo sappiamo tutti bene, in periferia come nei quartieri bene”.
Luigi Celeste ha vent’anni e vive con la madre e con il fratello Alessandro. Il padre, Franco, uomo violento con la moglie e con i figli, è in carcere per condotte delinquenziali. Il film si apre con il tentativo di Licia, la madre, di allontanare il marito dalla famiglia, denunciandolo e cancellandolo dallo stato di famiglia, ma piuttosto che trovare sostegno e protezione da parte dei servizi sociali, subisce l’allontanamento violento dei figli dal nucleo familiare. Il vuoto istituzionale trasforma la donna da vittima in colpevole. Quando il marito torna in libertà il nucleo familiare, madre e figli, è ricostituito e il figlio Luigi ha cominciato a frequentare un gruppo di estrema destra alla ricerca di una identità e di un esempio maschile da seguire, l’illusione di una famiglia che in realtà ripete una spirale di rabbia e violenza. Una catena inter-generazionale che ripropone lo schema di controllo appreso nelle relazioni familiari.
È Luigi, prima ancora della madre, a riavvicinarsi al padre, in una ricerca ambivalente in cui il desiderio dell’amore mai conosciuto si intreccia alla speranza di riabilitazione e appartenenza. In un primo momento osteggiato dalla madre e dal fratello Alessandro, trova in un momento successivo alleanza nella stessa madre complice e compiacente, una figura disturbante verso la quale la spettatrice non prova alcuna empatia. Una donna incastrata nel ciclo della violenza, abbagliata da apparenti “lune di miele”, che si svaluta, facendosi maltrattare e mortificare in una relazione di manipolazione e controllo, in cui il bisogno di possesso fa le veci dell’amore e il bisogno narcisistico dell’uomo acceca il riconoscimento dell’altro.
È la madre ad armare Luigi nell’omicidio del padre? È lo stesso Franco ad armarlo chiedendo la propria liberazione prima ancora di quella della famiglia?
Con estrema tristezza possiamo sentire che sono tutte vittime e allo stesso tempo, proprio per questo carnefici, in una spirale di impotenza e fragilità che genera violenza.
Costabile è al suo secondo film. “Una femmina”, opera di esordio del 2022, denuncia sulle donne vittime di violenza nelle famiglie della ‘ndrangheta calabrese, ispirato al libro inchiesta “Fimmine ribelli” di Lirio Abbate. Regista ancora acerbo ma promettente, sfrutta tutti i mezzi a disposizione, come il fuori fuoco, le inquadrature straniate con grandangolo e un ecosistema sonoro inquietante, l’uso dei silenzi e degli sguardi per portare e trasportare lo spettatore nelle atmosfere noir.
L’interpretazione di Francesco Di Leva nei panni di Francesco Celeste, padre e marito, perfetto anche somaticamente oltre che per appartenenza sociale e impegno politico, nel ruolo che riveste, si supera ancora una volta, dimostrando di essere un attore dai mille volti.
Un film da vedere e da sostenere.
Fulvia Grimaldi psicoanalista Associazione Italiana di Psicoanalisi A.I.Psi/I.P.A, segretaria A.I.Psi,
Direttrice di U.O.C. di Salute Mentale Napoli