“C’è ancora domani” di Paola Cortellesi
Un film acclamato e discusso si vede a bocca chiusa, una strana sensazione accompagna la visione di ogni singola scena, un vuoto di parole in una inesprimibile percezione di qualcosa di universale e terribile che si svolge lentamente nei 118 minuti in cui Paola Cortellesi, al
suo esordio come regista, riesce a dipingere una realtà condivisa e che pur cambiando nelle modalità, attraversa le epoche restando attuale.
Un’attesa silenziosa di una storia che attinge ad un bagaglio di pregiudizi e luoghi comuni ma allo stesso tempo non si fa scoprire facilmente lasciando intendere qualcosa di scontato che fino alla fine viene smantellato.
La scelta del bianco e nero permette di cogliere il vero significato degli sguardi, delle parole, dei gesti, delle soste, degli scenari che emettono con tutta la forza possibile il senso di oppressione e il desiderio di vita e di libertà.
Delia, la protagonista, sulle note di una sempiterna Calvin di The Jon Spencer Blues Explosion attraversa la città e si affanna nella sua giornata faticosa per risparmiare e comprare quanto serve
per la apparente libertà della figlia Marcella, un vestito da sposa che scoprirà sconvolta, non sarà emblema di miglioramento e riscatto ma memento di una storia già conosciuta di soprusi e
prepotenze. Delia resiste stoicamente ai costanti e prevedibili attacchi violenti del marito, all’ingestibilità dei figli maschi, privilegiati, ingrati, alla spocchia del suocero gretto e non autonomo, agli sguardi di disprezzo della figlia che non accetta la sua inerzia ma inconsapevolmente sta per ricadere nella stessa spirale che ha imprigionato sua madre, fidanzandosi con un ragazzo appartenente al ceto medio, perfetto esponente della categoria maschile e maschilista. Sovversiva e geniale la scelta della regista e interprete di rappresentare la violenta supremazia maschile sulla donna come una danza, resa ancora più perturbante dalla colonna sonora che acuisce lo sgomento e il senso di ingiustizia. Le scelte musicali di tutto il film arricchiscono le scene rendendole eterne e imprimendole nella memoria di ognuno che incredulo assiste sbalordito e attende silenzioso l’evolversi della vicenda.
Delia porta lo spettatore nella sua vita, nelle case e nei negozi dove presta la sua forza e le sue capacità, consapevole della disparità regnante tra uomini e donne. Nel suo solito tragitto incontra un soldato americano ad un posto di blocco: un ragazzo giovane che ritrova la foto della sua
famiglia, smarrita per strada, grazie a Delia che la raccoglie e gliela restituisce, così in debito di gratitudine, il giovane la osserva e cerca un contatto e si accorge dei suoi lividi e intuisce la sua condizione pur non parlando una lingua comune.
L’apparente incomunicabilità si trasforma in intesa e silenziosa comprensione, a Delia il supporto e l’aiuto provengono da posti lontani, da chi distribuisce sogni, speranza di cambiamento e cioccolata. Ma è in casa, tra le mura domestiche, che la protagonista vive la sua guerra rumorosa e violenta che riempie il cortile e lascia paralizzati e attoniti tutti, la sua vera prigionia, tra sguardi di
rimprovero, violenza, scuse strategiche e autoassolventi come risposta ad ogni respiro di vita ritenuto di per sé inopportuno.
All’improvviso Delia riceve una lettera per posta, la apre e la legge di nascosto come se si trattasse di qualcosa da proteggere perché troppo prezioso e bello per poterci credere. Delia custodisce un
segreto e inizia a sognare nuovi orizzonti, nulla è più impossibile da raggiungere ed emozionata immagina, per l’occasione, di poter vestire abiti nuovi che decide di confezionare lei stessa, perché
può finalmente pensare di emanciparsi. Ed è a partire da qui che lo spettatore inizia a credere nella favola che tutti si aspettano e che trova voce nelle parole della sua amica Marisa che la sostiene e
la sprona; insieme, in segreto, fumano una sigaretta, una trasgressione attraverso cui immaginare di poter essere libera, di avere una vita diversa con un uomo diverso. Tutti (o forse no!?) pensano che Delia sia pronta per cambiare la sua vita seguendo un amore di giovinezza che la invita ad ogni
incontro a recuperare il tempo mai vissuto insieme, un amore che sa di rispetto e libertà e che vive a tratti, rubando sguardi e assaporando insieme la cioccolata ricevuta dal soldato americano. Delia ora dopo ora, si prepara al gran giorno, ad un appuntamento importante, quello indicato nella lettera.
Egregia l’interpretazione di Emanuela Fanelli, Marisa, lei emblema della donna semplice ma rispettata, che lavora e riconosciuta nella sua emancipazione, amica complice e sostenitrice di Delia
in una rivoluzione silenziosa ma radicale e inaspettata.
La vera rivoluzione è fatta di gesti silenziosi e simbolici, a bocca chiusa si può cambiare, si può lottare ed esprimere il dissenso e il proprio diritto ad esistere.
La libertà non si conquista con la violenza o dipendendo da qualcuno ma dichiarando la propria volontà, esercitando il proprio diritto.
Arriva il 2 giugno e Delia è pronta ad andare all’appuntamento indicato nella lettera ma un grave contrattempo la blocca e deve rimandare, dopo un attimo di sconforto si rende conto che nulla è perduto perché c’è ancora domani per andare, per esserci, per cambiare. Così di prima mattina si prepara ad uscire, è il 3 giugno 1946, ma prima di recarsi alle urne, lascia sul comodino della figlia
tutti i suoi risparmi affinché quest’ultima possa investirli non più nell’abito da sposa che la stessa madre tanto ha sognato per la figlia, come riscatto e passaggio ad una condizione migliore grazie
ad un buon matrimonio, ma nella scuola, nella sua istruzione, perché è da lì che la libertà personale può iniziare e lei, la sua unica figlia femmina, ne ha diritto tanto quanto i fratelli. Una eredità
importante che profuma di indipendenza e riscatto, di uguaglianza e rispetto.
Delia si ritrova nella folta fila alle urne, il marito imbestialito la cerca ma non la vede, ma la figlia sì, e scopre una madre determinata e tenace che silenziosamente ha saputo muoversi e guadagnare
la propria libertà esercitandola nel suo diritto, a bocca chiusa e determinata.
Emozionante la scena dell’esercito di tante donne di tutte le età nel seggio, le stesse che si ritrovavano in fila per ricevere la razione di pasta mensile allo spaccio, in questo giorno speciale, si
riuniscono davanti alle urne felici di togliersi il rossetto, perché questa volta non è per obbedire al volere di proprietà esclusiva ad un uomo, così come Marcella ma ancor prima Delia stessa era stata costretta dal fidanzato e marito, ma per essere libere e sigillare la propria volontà, chiudendo la busta da inserire nell’urna.
Ecco l’appuntamento della lettera, non un uomo, non la fuga ma il riconoscimento della propria esistenza, del proprio pensiero, delle proprie idee, del proprio diritto a esprimersi e scegliere. E sulle note di “A bocca chiusa” del cantautore Daniele Silvestri, Paola Cortellesi, Delia sorride; ci regala un capolavoro, un film amaro e realistico che non crede nel lieto fine da favola ma nella forza autentica della realtà, quella dura ma vera.