Parthenope
di Paolo Sorrentino
di Paolo Sorrentino
Sorrentino consegna un’altra pagina di assoluta e straniante bellezza. Un film che attraversa il nostro stesso esistere e lascia sorpresi ed inermi di fronte alla potenza delle immagini e all’intensità degli affetti che mobilita. Bisogna lasciarsi andare come ad una esperienza, per entrare “dentro” il film. Attori tutti bravissimi, fotografia stupenda di Daria D’Antonio, musiche perfette di Lele Marchitelli, con la scelta di brani datati sempre perfetti e “vitali”. Basterebbe citare solo il brano di Cocciante “Era gia tutto previsto”, mentre i tre ragazzi ballano a Capri, nell’ estate dell’adolescenza, una numinosa rappresentazione di quella fase della vita: con i suoi desideri, esitazioni, sconforto, sospensioni, speranze, Eros e Thanatos continuamente intrecciati. I corpi che diventano “altro” con le pulsioni che premono, affrontando il lutto per la perdita dell’infanzia e la smania incerta della crescita. Qualcuno si “lascia andare” confondendo “l’irrivelante e il decisivo “ altri onnipotentemente credono di essere il mondo, altri ancora incontrano il perturbante, altri sopravvivono tra cecità e visione.
La sceneggiatura, scritta con Contarello ha delle battute fulminanti e assolutamente collegate alla vita: “Gli amori giovanili non sono serviti a niente”
– Non è vero, sono serviti a donarci l’illusione della spensieratezza”
La regia con i suoi virtuosisimi e i vezzi sorrentiniani è di altissimo livello. Alcune scene sono ridonano la magia del cinema. Lo spettatore è catturato dalle immagini, dal vedere la vita e la sua assoluta caducità. “L’antropologia è vedere” rivela alla allieva, Celeste Della Porta, una Parthenope splendente, il professore Marotta, un grande Silvio Orlando, la vita si dipana e allo stesso tempo fugge. Ma anche lo spettatore vedendo si rivede e si rispecchia, in dei momenti con la sensazione di essere stato scoperto nel sè segreto e a volte di essere stato, finalmente, trovato nel luogo dove è nascosto o, bloccato.
È un film sulla necessità e nello stesso tempo timore della illusione, che permette di vivere senza sostare mai completamente nella vita, senza esserne prigioniero.
“L’amore è provare a sopravvivere”
Alcune scene sono da antologia come quella della accoppiamento dei due ragazzi per favorire la fusione delle famiglie camorriste. L’inevitabilita del passaggio transgenerazionale, del destino, coglie e modifica l’innocenza, tra smarrimento e dissociato nei due giovani. Magnifico anche il movimento del vescovo Tesorone, uno straordinario Lanzetta, perduto e splendido tra perversione e solitudine. L’incontro con Parthenope, rivestita con i gioielli del tesoro di San Gennaro, mette insieme gli opposti che reggono e amplificano il desiderio, quel particolare impasto pulsionale, che è la sfida assoluta che ogni essere umano affronta e su cui , spesso, si perde.
“Il desiderio è un mistero ed il sesso il suo funerale”
E quando la ragazza raggiunge l’orgasmo il sangue di San Gennaro si scioglie, indicibile collegamento tra simbolismo e corpo, tra alto e basso. L’Edipo circola continuamente negli incontri della ragazza con il prof.Marotta e il cardinale Tesorone, un oggetto in sostituzione di in padre depresso e inconsistente.
La creatura, figlio del prof.Marotta, immagine che può essere vista/non vista, è forse quel luogo dell’infanzia che dimora in noi, non evoluta, indefinita ed incontattabile se non amata senza giudizio e senza cedere alla ragione.. La bellezza è l’altra faccia dell’orrore direbbe Rilke, ma tutto è impastato, il figlio, la parte arcaica di noi, può essere mostrata solo a chi non giudica e che comprende che è fatta della stessa materia della nascita”acqua e sale”.
Bellissime le due epifanie con Isabella Ferrari e Luisa Ranieri, entlrambi brave, che tra decadenza e permanenza in vita, descrivono gli aspetti dolenti della perdita della giovinezza e l’amore deluso che diventa invettiva.
Parthenope è Napoli? Si forse nella sua impermanenza, città tra le più innocenti e perverse, ma è soprattutto ognuno di noi, forse la grande bellezza di una madre arcaica e desiderata allo spasimo proprio perche imprendibile. Tra illusione e disillusione, bellezza, orrore, indicibilità, e la”rivelazione” che giunge quando si capisce che la vita non è stata che un attimo.
Un’affacciata alla finestra diceva Eduardo.
Il finale con la grande Sandrelli, in sottofondo una canzone di Gino Paoli che aveva tentato il suicidio per lei(… non solo) lascia attoniti e senza fiato. Siamo al confine dell’esistere, dove tutto ritorna, con l’inevitabile fine della vita, il tempo veloce passa e il mondo continuerà comunque. Come nella splendida poesia di Sandro Penna
“Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.
Ma più belli di te ragazzi ancora
dormiranno nel sole in riva al mare.
Ma non saremo che noi stessi ancora”.
Un film che racconta dell’umano, un film che si ama sino allo spasimo, solo se si riesce ad accettare il dolore e la tristezza, accettazione che che ci permette di guardare il mondo, anche, se per attimi, come se fosse “illuminato.” Cosi la ferita originaria di essere nati, non rimarginabile, risplende, per istanti, gloriosa e intermittente, pronta ad accomiatarsi da ogni luce per ritornare un nulla in possesso del mondo.
“Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto “
Matteo De Simone psicoanalista di Associazione Italiana di Psicoanalisi/A.I.Psi/I.P.A socio onorario ASSIA (Associazione siciliana per lo studio dell’infanzia e dell’adolescenza)