La persona dell’analista tra l’interpersonale e l’intrapsichico,
Simona Argentieri
Nella storia del pensiero psicoanalitico i due orientamenti interpsichico e intrapsichico sono sempre necessariamente e naturalmente intrecciati, in modo implicito, fin dal primo Freud. L’intrapsichico è abitato dalle relazioni già vissute e l’interpsichico è condizionato e colorato dalle “forme” del mondo interno. Tale approccio basilare ha meritato un’ulteriore esplicita attenzione in epoca moderna; poiché la più significativa acquisizione del dopo Freud è l’esplorazione dei livelli precoci, alla radice somatica dei processi mentali; di quelle aree dello psichismo nelle quali non sono definiti i confini tra dentro e fuori, mentale e corporeo, e il limite tra “me” e “non me” è confuso, fluido e continuamente rinegoziato, appunto, tra l’intrapsichico e l’interpsichico. Nella clinica, l’attenzione costante ai vari livelli del transfert/controtransfert ci convoca costantemente al confronto con questo doppio registro. Il problema diventa come concettualizzare nella cura tali aree pre-simboliche di non netta distinzione, appunto, tra l’inter e l’intra-psichico; come costituirle di senso e, soprattutto, come restituirle al paziente. Il contributo personale dell’analista, quando si lavora a livelli precoci dello psichismo, è più sostanzioso; il muoversi nel triplo registro cognitivo, affettivo e sensoriale, invoca la sua creatività e generosità; ma lascia anche più margine all’arbitrio.